Romualdo di Camaldoli, un santo ravennate

Quella di Romualdo è una storia che ci tocca da vicino essendo questi nato e vissuto, per un breve periodo della sua vita, nella città di Ravenna. A raccogliere notizie sulle sue vicende personali, in modo da essere tramandate anche ai posteri, fu Pier Damiani altro santo romagnolo dichiarato Dottore della Chiesa nell’anno 1828 da papa Leone XII.

Nel 1042, quindici anni dopo la morte dell’eremita, egli scrisse, infatti, l’opera biografica intitolata “Vita beati Romualdi” al cui interno troviamo, tra le tante informazioni, anche notizie approfondite riguardo al motivo che lo spinse alla conversione.

Nato a Ravenna intorno al 953 da una famiglia nobile (era il figlio del duca Sergio degli Onesti e di Traversara Traversari) quando ebbe all’incirca vent’anni fu implicato direttamente in un fatto di sangue: sembra che il padre, dedito interamente alla vita mondana e agli affari, un giorno ebbe una disputa con un altro parente della casata a motivo di una proprietà. La diatriba degenerò fino al punto di ricorrere alle armi. Nella lotta armata, che si consumò proprio sul luogo che fu la causa della controversia, il parente avverso rimase vittima per mano del padre Sergio. Pur non essendo lui colpevole in prima persona, Romualdo inizia ad avvertire il peso insopportabile del delitto di cui si era macchiata la famiglia e, di conseguenza, decide di ritirarsi nel monastero di Sant’Apollinare in Classe dove rimane chiuso per ben quaranta giorni in atteggiamento di espiazione. Da qui inizia pian piano la sua conversione che lo porterà a vestire l’abito monastico. Dopo tre anni passati in quel luogo decise di andarsene per intraprendere uno stile di vita più ascetico, sobrio e che si confacesse maggiormente ai precetti della regola monastica. Sembra che i suoi confratelli non fossero poi così ligi e che, anzi, vivessero in modo un po’ troppo libertino.

Partì, allora, alla volta di Venezia in compagnia di un eremita, tale Marino. L’esempio di Romualdo portò diversi notabili veneziani a convertirsi e a ritirarsi dalle loro vite dissolute e frenetiche per abbracciare un’esistenza solitaria e silenziosa.

In seguito divenne un monaco ed eremita itinerante, recandosi in varie zone dell’Italia per dispensare consigli su come vivere al meglio la vita eremitica, per riformare alcuni monasteri e fondarne di nuovi.

L’imperatore Ottone III, venuto a conoscenza degli innumerevoli pregi di Romualdo, gli conferì il gravoso incarico di riformare la comunità di Sant’Apollinare, nominandolo abate. Pur accondiscendendo, inizialmente, alle richieste dell’imperatore ben presto consegnò le sue dimissioni (nel 999) e iniziò nuovamente a peregrinare.

Si recò e sostò anche in Istria dove eresse un monastero. Come afferma Roberto Fornaciari, teologo ed esperto di storia del monachesimo, “la vita di Romualdo in Istria fu caratterizzata [oltre che] dalla fondazione di un monastero [anche] da un periodo di due anni trascorso da recluso, dalla conferma della valorizzazione dell’elemento della cella, intesa come lo spazio in cui il monaco può dedicarsi liberamente alla salmodia e alla lectio delle Sacre Scritture, per giungere alla compunzione del cuore”.

Ma l’eremo che fondò e per il quale è maggiormente conosciuto e famoso ancora oggi è indubbiamente quello di Camaldoli in provincia di Arezzo, immerso nelle Foreste Camaldolesi, create e curate per secoli dagli stessi monaci benedettini, che sono divenute l’habitat di diverse specie faunistiche.

Inizialmente si trattava solo di qualche cella eremitica alle quali vennero aggiunte in seguito altre celle. Fu il vescovo Teodaldo a sostenere il progetto del santo e a consacrare l’edificio nel 1027, anno in cui Romualdo venne a mancare. Ad appena cinque anni dalla sua morte venne dichiarato beato, mentre per la canonizzazione dovette attendere quasi sei secoli: avvenne nel 1595 sotto il pontificato di Clemente VIII. Viene celebrato il 19 giugno.

Tra i numerosi aneddoti che si sono tramandati sulla figura del santo, due sono particolarmente curiosi: il primo riguarda un fatto miracoloso che lo fece uscire incolume da una circostanza alquanto pericolosa. Sembra, infatti, che Romualdo ordinò l’abbattimento di un albero, un faggio per la precisione, troppo inclinato e accostato alla sua cella che avrebbe finito per distruggerla nel caso di una caduta. Il fatto sorprendente è che il santo volle rimanere all’interno della sua cella durante l’operazione e che l’albero, una volta tagliato, cadde da tutt’altra parte rispetto a come ci si aspettava. L’evento, che destò non poco stupore, venne immediatamente classificato come un miracolo. Un altro aneddoto curioso è quello che descrive il dono peculiare e divino di incutere soggezione ai potenti. Degna di nota è la frase esternata da Ranieri, marchese di Toscana, nei riguardi del santo: «Né l’imperatore né alcun altro mortale sono capaci di incutermi una paura pari al terrore che mi dà lo sguardo di Romualdo. Davanti a lui non so più cosa dire, non trovo più alcuna scusa con cui difendermi».