Remigrazione

Deportazione di massa. Nei momenti dedicati alla Giornata della memoria, a 80 anni dalla liberazione dal campo di detenzione di Auschwitz, si torna a parlare di deportazioni di persone in gruppi e in catene. Non si tratta di film con rievocazioni storiche. Stiamo parlando di attualità. Stiamo ragionando, e ci indigniamo, su quel che accade di là dall’oceano Atlantico, in quel grande Paese che per noi europei è sempre stato modello di democrazia e civiltà. 

Le immagini diffuse dalle televisioni e dai siti, anche i nostri, hanno mostrato la prova di forza messa in campo dal neo presidente Donald Trump. Aveva promesso che avrebbe riportato gli immigrati irregolari a casa e così ha fatto nei suoi primi giorni di governo. Non solo li ha “remigrati”, un neologismo che si sta affermando e sottolinea il rimpatrio forzato e violento, ma li ha mostrati al mondo intero in catene. Ha voluto fare intendere che con lui non si scherza e che quel che afferma viene tradotto in azioni. 

Sono immagini di fronte alle quali ci dovremmo vergognare. Avevamo letto sui libri di storia degli schiavi nelle piantagioni di cotone o di quelli tradotti sulle navi, dall’Africa all’America. Pensavamo che certe malvagità fossero state consegnate al passato. Un passato, invece, fin troppo presente, non solo negli Usa, è bene chiarire anche questo.

Quello che fa specie è l’imbarbarimento cresciuto in fretta negli ultimi tempi. Abbiamo sempre pensato che certe condizioni disumane venissero applicate solo in Stati ai limiti della civiltà e del tutto antidemocratici. L’arrivo di Trump, con il suo trumpismo, come abbiamo scritto su queste colonne sette giorni fa, ha mostrato ben altra realtà, nella sua crudezza. Dal buonismo di qualche tempo fa, che rischiava una visione sdolcinata e perbenista del mondo, siamo passati al cattivismo che frantuma in un attimo le conquiste di secoli di lotte per i diritti e le libertà.

In questo mutato contesto, cresce ancor di più il ruolo delle comunicazioni sociali. Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, in un dibattito a Roma la scorsa settimana con l’ex direttore del Corsera Ferruccio De Bortoli in occasione del Giubileo dei giornalisti, a proposito degli oligarchi che detengono il controllo dei social media, ha detto che questo fatto «ci deve preoccupare non molto, ma moltissimo».

Non possiamo dormire sonni tranquilli. Dopo la giusta indignazione, occorre alzare la voce. E denunciare. Chissà che tante gocce insieme non diventino marea.