Due nuove pubblicazioni su Leonardo da Vinci e Dante Alighieri

Due nuove pubblicazioni su Leonardo da Vinci e Dante Alighieri Nuove vie per grandi autori per i tipi della casa editrice fiorentina Olschki

La casa editrice fiorentina Olschki ha recentemente edito due volumi, di non grande dimensione ma di profondo e interessante valore, legati a due personaggi che ebbero uno stretto legame con la Romagna, ovvero Leonardo da Vinci e Dante Alighieri. Il primo testo è la pubblicazione degli atti del ciclo di conferenze che si tennero a Vinci nel 2019, in occasione del centenario leonardesco. Il secondo è un saggio dedicato al rapporto fra giurisprudenza e teologia nell’opera di Dante.

Leonardo da Vinci

Il volume dedicato a Leonardo presenta al suo interno, com’è ovvio, essendo frutto di numerose conferenze, vari contributi, tutti molto validi: dall’analisi dell’uso della penna nei disegni (Marzia Faietti) al rapporto fra il maestro toscano e gli scultori lombardi (Maria Teresa Fiorio). Fra gli altri, però, ci sono sembrati davvero interessanti due spunti: Paolo Galluzzi analizza Leonardo in occasione dei suoi centenari “italiani” e Domenico Laurenza pone a confronto l’analisi anatomica e geologica del genio rinascimentale.

Andiamo per ordine: cosa intendiamo dire parlando dei centenari “italiani” di Leonardo? Che, essendo nata l’Italia unita nel 1861, solo nel 1919 si poté festeggiare Leonardo in occasione del centenario della morte. L’Italia era appena uscita dalla Grande guerra, imperversava la Spagnola, e nel 1911 il nome del toscano era divenuto noto a tutti grazie a un incredibile furto. Com’è noto, in quell’anno Vincenzo Peruggia aveva rubato Monna Lisa al Louvre di Parigi. Quel furto, e la sparizione del quadro (che sarebbe stato ritrovato solo nel 1913), resero di colpo popolarissima un’opera che fino a quel momento era apprezzata, sì, ma solo dagli appassionati: si può dire che fu proprio Peruggia a rendere Monna Lisa il quadro più famoso del mondo, facendo nascere quello straordinario interesse per Leonardo in cui ci troviamo immersi oggigiorno. Si comprende, quindi, che il centenario del 1919 fosse di straordinaria importanza per una nazione giovane (aveva compiuto 50 anni proprio nel 1911), uscita vittoriosa dal conflitto mondiale, desiderosa di festeggiare al meglio l’“italiano” Leonardo. Purtroppo, come spesso, troppo spesso, succede in Italia, le celebrazioni furono organizzate con poca preparazione, tanto che il comitato si ritrovò per la prima volta proprio in quel 1919: troppo poco tempo per realizzare qualcosa di adeguato all’occasione.

Diversa la storia per il 1952: questa volta si festeggiavano i 500 anni dalla nascita e, soprattutto, l’Italia era una repubblica, si stava rialzando dalle ferite della guerra, e la politica nazionale, guidata dalla Democrazia cristiana, voleva rendere Leonardo buon cattolico e osservante: ed ecco che nelle pubblicazioni del tempo spicca il legame dell’artista non già con i tempi futuri (Leonardo anticipatore di questo e quello, inventore di quasi ogni cosa esista) ma con il passato: Leonardo ultimo uomo del Medioevo, devoto cristiano, modello da seguire in un’Italia in cui lo scontro fra Dc e Pci era al calor bianco.

Nel saggio sul rapporto fra anatomia e geologia, invece, Laurenza mette in risalto la diversità fra Leonardo e i suoi contemporanei: tanti si dedicarono alla dissezione di cadaveri, ma si fermarono allo studio di muscoli e ossa, per potere adoperare le conoscenze acquisite nelle loro opere pittoriche. Leonardo fece qualcosa di più: dalle conoscenze pittoriche passò alle conoscenze anatomiche, e, ad esempio, scoprì per primo che il cuore era un muscolo, che era formato da quattro parti, che questa forza vitale era il movimento costante che permetteva all’uomo di essere animato. Lo stesso fece con le rocce, analizzando quelli che oggi chiamiamo fossili. In un mondo che si era all’improvviso ingrandito, e grazie a Amerigo Vespucci aveva scoperto che esisteva, al di là dell’oceano, un continente intero, la dinamica dei movimenti della terra e delle acque affascinò il genio di Vinci, che in un passo del Codice Leicester arrivò a scrivere: «Perché molto son più antiche le cose che le lettere, non è maraviglia se alli nostri giorni non aparisce scriptura delli predetti mari essere occupatori di tanti paesi; e se pure alcuna scrittura apparia, le guerre, l’incendi, le mutazioni delle lingue e delle legi, li diluvi dell’acque hanno consumato ogni antichità; ma a noi basta le testimonianze delle cose nate nelle acque salse ritrovarsi nelli alti monti, lontani dalli mari talor». È una pagina di grandissima suggestione, che ci mostra come, sia pure senza averne piena consapevolezza, Leonardo intuisce ciò che avvenne in epoche così remote da mettere i brividi, in quei milioni di anni in cui la vita fioriva sulla terra con modalità diversissime da quelle attuali. Ed è la prova di quanto il toscano sia, ancora oggi, un punto di riferimento ineludibile.

Dante Alighieri

Venendo al secondo volume, Valerio Gigliotti, docente di Storia del diritto medievale e moderno all’Università di Torino, riflette sul rapporto in Dante fra teologia e giustizia, e in particolar modo, come la giurisprudenza abbia un effetto nella sua opera maggiore. Senza entrare in un campo troppo tecnico per chi non è esperto, pur spiegato con grande precisione, ci sono alcuni punti di questa analisi che sono di grande interesse per tutti coloro che amano leggere Dante e in particolare la Commedia.

Innanzi tutto, va chiarito, e l’autore lo fa bene, che l’idea di un Aldilà in cui i malvagi vengono puniti e i giusti vengono premiati è antichissima: dai tempi degli Egizi in poi tutti o quasi gli esseri umani hanno posto fede in un mondo di là da venire in cui le storture del mondo attuale venissero rettificate. In particolare, alla fine del Medio Evo, come ha ben descritto Jacques Le Goff, si sviluppa e si afferma il concetto di Purgatorio: un regno ultraterreno intermedio fra Paradiso e Inferno. La Chiesa accoglie molti concetti provenienti dal folklore europeo, li fa suoi, li trasforma, e ufficialmente dal XIII secolo l’esistenza di questo regno diventa realtà per i fedeli: si può anzi dire che proprio la seconda cantica di Dante rappresenta il vero e proprio trampolino di lancio per questa idea, che non conoscerà più ombre.

Questi tre regni ultraterreni, però, necessitano di una legge: una legge che supera quella umana, in quanto le anime stesse, quando giungono di fronte al loro giudice, affermano i peccati commessi, non li nascondono, tanta è la forza della Verità. Dante, nell’identificare le colpe, si allontana dalla prassi a lui contemporanea, in quanto non concepisce attenuanti per i peccatori: la colpa è tanto più grave quanto era più forte il legame d’amore con l’offeso. Due sono gli esempi famosi tratti dalla Commedia su cui si appunta la ricerca di Gigliotti: Celestino V e Francesca da Rimini.

Nel primo caso, è ben noto che il canto III dell’Inferno ci presenta fra gli ignavi, che nella vita non vollero mai scegliere, un personaggio, che Dante non nomina, per disprezzo, limitandosi a dire che fece «per viltade il gran rifiuto». Va sottolineato che papa Celestino V era stato canonizzato il 5 maggio 1313, quindi la prima cantica probabilmente non era ancora stata divulgata, o se lo era, lo era stata da pochissimo: Dante non volle mai rettificare l’identificazione del defunto santo con il suo dannato. Non poteva più farlo, perché il poema ormai era pubblicato, oppure non volle farlo? Ad ogni modo, i primi commentatori dell’opera, fra cui il figlio di Dante, Jacopo, non hanno dubbi. Il dannato è Celestino V. È solo alla fine del secolo che, sulla scorta dell’elogio che di Celestino V fece Francesco Petrarca, che cominciano a nascere dubbi. Nel 1373 Boccaccio è certo: quel dannato è Esaù. Da questo dettaglio si vede come l’opera dantesca riesca ad essere, fin dal suo esordio, motivo di scandalo, nel senso migliore del termine: costringe i lettori a prendere posizione, li obbliga a essere parte in causa.

Chiudiamo con il celeberrimo episodio del V canto dell’Inferno: perché proprio Francesca è protagonista di questa scena? Va notato che lei è il primo vero personaggio dialogante del poema, è con lei che per la prima volta Dante mette in scena un dialogo vero, è per lei che Dante sviene. Di Francesca da Polenta e della sua storia tragica con i fratelli Malatesti, Paolo e Gianni, sappiamo quel che sappiamo perché Dante ne scrisse: i cronisti del tempo tacciono, e chi scrive dopo Dante sembra non faccia altro che riprendere quel che il poeta aveva già scritto. Grave la colpa di Francesca, ma la colpa dell’assassino, Gianciotto, è assai più grave. Lei e Paolo sono nel cerchio dei lussuriosi, ma il fratello assassino precipiterà nella Caina, la zona più profonda degli abissi oscuri. Tutto chiaro, ma perché Dante sviene? Molte sono le ipotesi, quella di Gigliotti è molto interessante: Francesca è figura Dantis, è immagine dello stesso Dante, che alle storie d’amore dei cavalieri antichi, di Artù e Ginevra, Tristano e Isotta, ha dedicato tempo e poesie. Quella poesia è malata, spinge ad abbandonare la virtù per il vizio. Dante si rende conto, in un attimo, delle sue personali colpe, ed è questa consapevolezza, e la necessità di una conversione, a farlo svenire.

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Come abbiamo detto all’inizio, due testi legati in modo più o meno diretto alla Romagna (Leonardo visse in Romagna nel 1502, Dante passò in queste terre ampia parte della sua vita) ci permettono di riflettere ancora su due geni del nostro passato, in grado di illuminare il nostro presente.

  • Omaggio a Leonardo, a cura di Roberta Barsanti, Monica Taddei, ed. Olschki, Firenze 2023, pagg. 156, 53 illustrazioni, 32 euro.

  • Valerio Gigliotti, La diritta via. Itinerari giuridici e teologici danteschi, ed. Olschki, Firenze 2023, pagg. 180, 25 euro.