Settembre 1321, muore Dante Alighieri ma il suo mito continua

In una Ravenna di settecento anni fa, nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, il già famoso poeta Dante degli Aldighieri (per altri Alagherii), “andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero”, come scrive Alessandro Barbero.

Su di lui è stato versato un oceano o, come sarebbe piaciuto a lui, un cosmo di parole – e un “Dante si fa cosa del Cosmo” è il titolo di un’opera di uno dei più grandi artisti di oggi, Ennio Calabria -, parole che iniziano ad essere messe per iscritto dai suoi stessi figli Piero e Iacopo.

Se solo volessimo attenerci ai contributi attuali, oltre a quello appena citato di Barbero (“Dante”, edito da Laterza) che indaga il poeta alla luce esclusiva dei documenti in nostro possesso, dovremmo almeno accennare a quello del compianto Marco Santagata (“Come donna innamorata”, Guanda) che parla dell’amore di Dante per Bice di Folco Portinari, detta Beatrice, e che però già dal sottotitolo ci avvisa che è un “romanzo”, seppure di uno specialista; dovremmo poi segnalare “A riveder le stelle” di Mario Dal Bello per Città Nuova che racconta sinteticamente le tappe più significative del suo percorso umano.

E, se vogliamo andare indietro nel tempo, ricordare almeno i contribuiti di Giorgio Petrocchi, curatore di una celebre edizione della Commedia in 4 volumi e autore di una “Vita di Dante” edita da Laterza.

Ma tutti i grandi della critica, della ricerca, della filologia e ovviamente della letteratura hanno lasciato parole importanti sulla nostra gloria poetica, da Boccaccio a Byron, fino a Auerbach, senza dimenticare Eliot e Borges, per fermarci solo a pochissimi nomi. Su di lui, da settecento anni, aleggia una domanda: perché è rimasto?

Perché è nel paradiso, per usare parole sue, non solo della letteratura ma dell’immaginario collettivo planetario, in compagnia di Shakespeare e del suo amato Virgilio? Non basterebbe una sola definizione, perché il genio non è incapsulabile in rigidi schemi teorici, ma si potrebbe dire che rappresenta, citando Harold Bloom, il Canone per eccellenza del suo tempo. E tra l’altro non basterebbe, perché lui, come pochi altri, è riuscito a raccogliere l’eredità del passato senza rimanerne schiacciato, per poi rimodellarla in modo tale da farne il futuro, non solo della letteratura, come aveva capito subito uno, lontanissimo apparentemente da lui, come Boccaccio (Petrarca non lo amava, anche se invece gli doveva molto).

Alcune immagini dell’Inferno sono talmente forti da rimanere per sempre nella memoria e alcune sue frasi sono ormai figure che fanno parte del parlare comune, fin dall’incipit: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”.

Ma anche le altre due Cantiche conservano capolavori di una tale profondità da rimanerne basiti, soprattutto quell’atmosfera di trepida attesa nel Purgatorio, con le stupende parole – in provenzale – del trovatore Arnaut Daniel che risponde a Dante. Tanto gli è gradita la gentilezza con cui il fiorentino gli chiede chi sia, che, secondo le regole della cortesia medioevale, non può non rispondere; è il poeta Arnaut, che piange e canta nello stesso tempo, perché ha compreso la sua passata follia ma vede davanti a sé il giorno della speranza, e lo invita a ricordarsi di lui nella preghiera quando sarà giunto “al som de l’escalina”.

Non solo Beatrice, dunque, che pure, nella Vita Nuova e poi nel Paradiso, rappresenta un’immagine del femminile di una profondità – e bellezza – mai più raggiunta da alcuno, ma gran parte della sua opera poetica rimarranno nell’immaginario dell’intera umanità.

Il fatto che sia indagato ancora oggi da studiosi di ogni parte del mondo ci dice che Dante ha ancora molto da rivelare e che il suo fascino non è soggetto alle leggi che in genere regolano le mode letterarie, anche perché rappresenta la titanica impresa di ricercare le tracce del divino nella nostra storia, sia quella con la maiuscola, sia quella di tutti i giorni.