Siria: tra sanzioni, pandemia e guerra, la lotta dei siriani per la sopravvivenza

“Siamo entrati nell’oblio. Chiediamo comunità internazionale di rimuovere le sanzioni che impoveriscono ogni giorno di più i siriani. Sono contro i diritti umani, sono disumane perché penalizzano tutta la popolazione. Qui la gente sta morendo di fame. Non ci sono medicine. Non c’è lavoro”.

È il monito di monsignor George Abou Khazen, vicario apostolico latino di Aleppo, città martire della guerra siriana, entrata ormai nel suo decimo anno. Non è solo il conflitto a preoccupare l’arcivescovo, e nemmeno il Covid-19. A strangolare progressivamente la popolazione siriana, dice, sono “le sanzioni internazionali e i suoi effetti”.

L’Ue ha prorogato, il 28 maggio scorso, le misure restrittive contro il regime siriano per un altro anno, fino al 1 giugno 2021. Dal 17 giugno, invece, dovrebbero entrare in vigore quelle decise dal presidente Usa, Donald Trump, contenute nel “Caesar Syria Civilian Protection Act”. Le sanzioni Ue, introdotte nel 2011 in risposta alla repressione del regime siriano della popolazione civile, colpiscono aziende e imprenditori che hanno rapporti commerciali con il regime e con l’economia di guerra.

Le sanzioni, tra le altre cose, vietano l’importazione di petrolio, impongono restrizioni su determinati investimenti e su attrezzature e tecnologia che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna. Il “Caesar”, dal canto suo, imporrà sanzioni sui leader siriani, società, Stati e individui che appoggiano militarmente, finanziariamente e tecnicamente il governo di Assad e i suoi alleati Russia e Iran. Altre sanzioni Usa sono in vigore già da prima dell’insurrezione del 2011.

“La comunità internazionale si faccia un esame di coscienza: per noi le sanzioni sono un crimine” rimarca il Vicario -. Siamo molto delusi dall’Ue. Chissà cosa accadrà con l’entrata in vigore del Caesar Act di Trump. Abbiamo bisogno della pace, ma adesso la priorità è sopravvivere”.

La vera paura e la crisi del Libano

A confermare al Sir la gravità della situazione in Siria sono alcune fonti locali che vogliono restare anonime: “Ad oggi la vera paura dei siriani non è la pandemia ma la povertà generata da anni di guerra, di sanzioni e di crisi economica”.

Il termometro della crisi oggi è la svalutazione della moneta locale che sta provocando un’impennata dei prezzi per tutti i beni compresi cibo e medicine. A giocare un ruolo determinante nella svalutazione della lira siriana è la crisi finanziaria libanese. Per la Siria, infatti, il Paese dei Cedri è sempre stato una strada aperta verso il mondo esterno, soprattutto dopo l’imposizione delle sanzioni occidentali. In Libano sono depositati i conti e i risparmi di tantissimi siriani e le banche libanesi hanno favorito i commercianti e imprenditori siriani nei loro affari. Almeno fino a pochi mesi, quando le avvisaglie della crisi che avrebbe portato il Libano al default nel marzo di quest’anno, hanno di fatto provocato restrizioni bancarie nella vendita di dollari, nel ritiro dei risparmi e causato il blocco dei depositi siriani nelle banche libanesi. Al crollo della sterlina libanese ha fatto seguito anche quello della valuta siriana.

“Così ogni giorno assistiamo ad un calo della nostra moneta con conseguente salita dei prezzi – dichiarano le fonti -. La gente non ce la fa a comprare da mangiare. Nelle ultime sei settimane la lira siriana ha perso circa il 65% del suo potere di acquisto. Se prima un dollaro era scambiato a 1000 lire siriane, adesso ce ne vogliono oltre 3000. All’inizio della guerra (2011) per un dollaro servivano 50 lire”.

E chi sperava che con la fine del lockdown i locali e negozi delle città siriane tornassero a riempirsi si è dovuto ricredere. Per il rilancio dell’economia bisognerà attendere ancora: “Con i prezzi è cresciuta anche la disperazione e la rabbia della gente”.

Mancano medicine e chiudono le farmacie. Gravi le ripercussioni anche sul sistema sanitario, già disastrato dalla guerra: “Le industrie farmaceutiche siriane hanno smesso di produrre per mancanza di materie prime molto costose da reperire. Il prezzo di produzione è più alto di quello fissato dal Governo per la vendita. Dunque produrre medicine significa perdere denaro. Ne deriva una carenza di medicinali e la corsa all’accaparramento specie di quelli per le malattie croniche. Molte farmacie hanno chiuso per mancanza di forniture. Ci sono ospedali che faticano a rifornirsi anche di carta igienica e di presidi medici di uso comune”.

In questo quadro a tinte fosche, chi continua a curare gratuitamente i più vulnerabili di Damasco e Aleppo sono i tre nosocomi cattolici del progetto “Ospedali Aperti”, ideato dal card. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, che ne ha affidato la gestione ad Avsi, organizzazione internazionale che opera su più fronti per dare sostegno alla popolazione siriana.

Nell’Ospedale Italiano e Francese di Damasco, e in quello di St. Louis ad Aleppo, spiegano da Avsi, “si continua a curare la popolazione. L’impegno è cercare di accogliere un numero sempre più alto di malati e salvare più vite possibile. In questi anni sono cresciute patologie gravi come i tumori, specie tra i giovani”.

Contro le sanzioni

Chi si sta battendo contro le sanzioni alla Siria è l’ong New Humanity, con la sua associata Amu – Azione per un Mondo Unito, che ha lanciato un appello per chiederne l’immediata sospensione “almeno per le forniture sanitarie e i materiali destinati alle cure mediche e per i fondi necessari per pagarle”. I destinatari dell’appello, firmato fino ad oggi da oltre 17 mila persone, sono tra gli altri António Guterres, Segretario Generale Nazioni Unite; Donald J. Trump, Presidente degli Stati Uniti d’America e David M. Sassoli, Presidente Parlamento europeo.

Un’iniziativa, spiegano al Sir le ong promotrici che fanno capo al movimento dei Focolari, “al di sopra di qualsiasi orientamento politico o ideologico con l’obiettivo di salvaguardare la popolazione civile siriana”. “Le sanzioni – dicono le ong – bloccano investimenti e transazioni finanziarie rendendo difficili i commerci, importazioni e esportazioni. I siriani che sono all’estero non riescono più a far arrivare soldi ai loro parenti”. Le ong non mancano di segnalare “un velo di ipocrisia sul tema delle sanzioni:

hanno posto l’embargo all’acquisto del ferro perché potrebbe essere usato a fini bellici e poi  fanno arrivare qui in Siria armi da ogni dove.

Piuttosto che impoverire il popolo siriano con le sanzioni, Ue e Usa dovrebbero trovare strade di dialogo per una soluzione negoziata del conflitto. In Siria prima d’ora non abbiamo mai visto gente che cerca cibo nell’immondizia e persone che vendono reni per avere soldi”. Anche l’Associazione pro Terra Sancta, che fa riferimento alla Custodia di Terra Santa, invoca lo stop all’embargo alla Siria, così come le Trappiste siriane. In una lettera le religiose chiedono la fine delle sanzioni che pure, affermano, “non sono l’unica causa di tutti i problemi in Siria. Ci sono tante responsabilità, anche interne. Ora c’è una guerra economica in corso, una guerra di spartizione di aree di potere, di privilegi economici, di influenze sul territorio”.

Per questo “il sistema politico-economico interno è chiamato a combattere la corruzione e a promuovere la crescita, facendosi carico dell’interesse del paese aiutando tutti i cittadini”.