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anniversario della liberazione

Il 25 aprile in città. Il sindaco Lattuca: "Non c'è pace senza giustizia. Distinguere gli aggrediti dagli aggressori"

Il sindaco ha ricordato gli incontri con tanti centenari dicendo che in loro ha sempre intravisto compreso "il valore della vita e l’importanza della libertà e della democrazia, intesa prima di tutto come insieme di valori che rendono civile la convivenza, un orizzonte comune a cui subordinarsi nell'interesse del bene collettivo"

Foto di Sandra e Urbano fotografi a Cesena

Anche in città a Cesena, come ogni anno, è stato ricordato l'anniversario della Liberazione del 25 aprile 1945, dopo due anni di assenza a causa della pandemia. 

Nella cerimonia che si è tenuta stamattina partendo dalla Barriera fino al monumento del partigiano in viale Carducci dove il sindaco Enzo Lattuca ha pronunciato il discorso che di seguito pubblichiamo. Il primo cittadino non ha taciuto i temi riguardanti l'attualità e l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia. Ha ricordato che non c'è pace senza giustizia e che occorre distinguere gli aggrediti dagli aggressori. 

Di seguito il testo dell'intero intervento di Lattuca. 

Care concittadine, cari concittadini,

Autorità civili, militari e religiose,

 

eccoci di nuovo insieme a celebrare la Festa della Liberazione.

Devo ammettere che negli ultimi due anni, il 25 aprile, mi sono sentito un po’ solo. Solo e quasi a disagio, qui, con questa fascia tricolore, a celebrare la Liberazione senza di voi per una delle tante dolorose privazioni imposte dalla pandemia.

 

Siamo finalmente tornati qui, al monumento ai Caduti per la Resistenza realizzato nel 1974 da Ilario Fioravanti, artista del quale quest’anno ricordiamo il centenario della nascita. Un monumento, i cui bozzetti sono conservati nell’ufficio del sindaco, che ci ricorda che liberare l’Italia dal nazifascismo costò tantissimo, in termini di sacrifici e di vite umane.

Il peso di questa persona, portata a spalla da un altro essere umano, il peso del bronzo, in quegli anni furono in tanti a caricarselo. Prima i lunghi anni vissuti sotto la dittatura, poi la faccia più feroce della guerra di occupazione, con bombardamenti, rappresaglie, eccidi di vittime innocenti.

 

Ma il 25 aprile 1945, 77 anni fa, l’Italia seppe rinascere. Quella di oggi ricordiamoci che è una festa di armi deposte, di pace riconquistata, di ricostruzione e di libertà.

 

Libertà e Democrazia. Due concetti che i nostri nonni ed i nostri padri, dopo avere combattuto, hanno avuto la capacità di tradurre in istituzioni e nella Costituzione, nata dalla Resistenza.

Le polemiche di questi giorni rischiano di alimentare ancora una volta l’idea che questa sia una giornata divisiva ma non è così. Tutte le culture politiche che hanno ricostruito la Patria e costituito la Repubblica sono protagoniste con pari dignità.

Il fascismo quello no, per le responsabilità che ebbe nel trascinarci nell’inferno della seconda guerra mondiale, per l’ideologia totalitaria, anti democratica e anti libertaria che caratterizzava la sua natura e che si tradusse, con grande coerenza, nella negazione dei diritti e delle libertà fondamentali, nella repressione violenta del dissenso, nell’annientamento del pluralismo.

 

La Resistenza ebbe una non trascurabile, e forse determinante, efficacia sul piano strettamente militare, indirizzando l’esito del conflitto. Ma fu soprattutto il grande riscatto della dignità e dell’onore di un popolo umiliato e portato alla sconfitta.

Di loro, di chi combattè la lotta di Liberazione al fianco dell’esercito alleato, di chi prese le armi e si unì alle brigate partigiane, di chi diede loro aiuto e protezione mettendo a rischio la sicurezza delle proprie famiglie, dei soldati italiani prigionieri che rifiutarono l’arruolamento nella Rsi, purtroppo non sono in tanti oggi ad essere ancora in vita.

 

Proprio nei giorni scorsi è venuto a mancare Mario Bilancioni, di San Giorgio, che a soli 17 anni aveva scelto la lotta partigiana. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, così come ho conosciuto Alvaro Piraccini, detto “Eno”, scomparso nel 2009. Anche lui, diciassettenne, come tutti i partigiani aveva scelto di combattere per la libertà, sua e di chi sarebbe venuto dopo di lui.

Una volta mi disse, “quando avevo la tua età facevamo le pistolettate” e scorgendo nei miei occhi una sorta di ingenua fascinazione aggiunse “non c’è niente di bello nell’usare le armi e nell’uccidere altri uomini, ma è quello che ci toccò di fare”.

 

Nei loro racconti, così come in quelli delle persone centenarie che incontro da quando sono sindaco, per la maggior parte donne, emergeva ed emerge chiaramente come davanti alle mostruosità che dovettero affrontare capirono il valore della vita e l’importanza della libertà e della democrazia, intesa prima di tutto come insieme di valori che rendono civile la convivenza, un orizzonte comune a cui subordinarsi nell'interesse del bene collettivo.

 

E allora oggi, che i testimoni oculari e i protagonisti di quelle vicende sono sempre di meno, è ancora più importante fare memoria di questi fatti, e ancora più del senso di cui sono portatori, respingendo ogni forma di revisionismo.

 

Dobbiamo sempre ricordarci che da un lato c’era chi combatteva per la libertà e, dall’altro, chi per una dittatura illiberale e subalterna al nazismo. Abbiamo il dovere, morale prima ancora che storico, di fare sempre questa distinzione.

 

Distinguere l’aggredito dall’aggressore. Distinguere la ragione dal torto. È un compito che ci tocca anche oggi, di fronte alla guerra iniziata due mesi fa in Ucraina. Non ci possono essere ambiguità davanti a questo conflitto, almeno non vi possono essere tra chi è qui ogni 25 di aprile: bisogna essere partigiani e saper riconoscere le opposte ragioni che si misurano in questa guerra alle porte dell'Europa. Da un lato c’è la Russia che ha aggredito, con le scelte del suo Presidente, uno stato sovrano. Dall’altro ci sono un popolo, una nazione, una democrazia sicuramente immatura, imperfetta, che tenta in ogni modo di difendersi da questa aggressione, e chiede supporto ad altri Paesi per poterci riuscire e che paga quotidianamente il prezzo di sangue, di morti innocenti, di case distrutte, di donne violentate.

 

Non si tratta di cercare a tutti i costi di fare paralleli tra storie e resistenze diverse, anzi tra una storia, quella resistenza italiana e la cronaca in presa diretta, fatta anche di propaganda, omissioni, segreti e non detti che si sta consumando.

Il 25 aprile risuoni il desiderio di pace!

Questa guerra ci turba più delle altre. È vicina. Chi scappa terrorizzato ci somiglia, ci preoccupa, ci scandalizza e ci indigna, e oltre a tutto ciò, ad essere sinceri, disturba i nostri interessi.

Ma non onora i partigiani chi pensa che la conclusione del conflitto più semplice e immediata passi dalla soccombenza, dalla resa incondizionata, del popolo offeso nella propria libertà. Non c’è pace per chi perde la libertà. Non c’è pace senza giustizia. La pace non è solo assenza di guerra.

 

Di fronte a questa guerra che sta sconvolgendo gli equilibri geopolitici degli ultimi 30 anni è una priorità assoluta mettere in sicurezza l’Europa. In questi 77 anni che separano l’Europa dalla seconda guerra mondiale, le uniche guerre nel nostro continente si sono avute in quei territori non integrati nell’Unione: i Balcani, il Caucaso e oggi l’Ucraina. È davvero tempo che l’Unione europea diventi protagonista della vita del mondo, sul piano politico e diplomatico prima di ogni altra cosa, se vogliamo dare un senso al nostro ruolo nel mondo che cambia e se vogliamo mantenere nel nostro continente la pace e la libertà conquistate a così caro prezzo nel 1945.

 

Un prezzo che pagarono in tanti, troppi, tantissimi dei quali completamente innocenti. Per questo, permettetemi di avvicinarmi a concludere questo mio intervento con una delle pagine più umane, lucide e commoventi sulla guerra scritte da Cesare Pavese ne La Casa in Collina.

 

Scriveva Pavese, nel 1948:

 

Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitato sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.

 

La guerra è cruenta, terribile, maledetta, porta alla disumanizzazione di chi la combatte da tutte le parti. Ma l’esito della guerra non è indifferente.

 

Oggi, come ogni 25 aprile, festeggiamo la fine della guerra, la liberazione perché ha vinto chi stava dalla parte giusta, l’inizio di un lungo periodo di pace.

In uno dei tanti monumenti in onore dei caduti per la liberazione di cui è seminata la nostra città sta scritto:

“Se non sai cos’è la guerra ricordati di loro che te l’hanno risparmiata. Se non sai cos’è la libertà ricordati di loro che te l’hanno data”.

 

Viva la Resistenza

Viva la Liberazione

Viva l’Italia

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