Crisi umanitaria
L’esodo dei venezuelani in Brasile: l’allarme della Chiesa, “nel Roraima situazione disastrosa”
Dal Brasile alla Colombia al Bangladesh. Sono tante le sfide che le Chiese locali stanno affrontando per aiutare i migranti e i rifugiati nei loro Paesi. Se ne è parlato ieri a Roma durante la tavola rotonda finale dell'assemblea plenaria della Commissione internazionale per le migrazioni (Icmc) che si è svolta dal 6 all'8 marzo. Ieri i partecipanti sono stati ricevuti da papa Francesco.
L’esodo dei venezuelani in seguito alla crisi politica ed economica non si ferma: oltre 4 milioni di persone in due anni hanno lasciato il Venezuela verso Colombia, Brasile, Ecuador, Panama, Spagna, Cile, Perù, Stati Uniti. In Brasile, nelle città di Boa Vista e Pacaraima, nello stato frontaliero di Roraima, arrivano ogni giorno migliaia di persone. A gennaio sono state circa 12.000, a febbraio oltre 11.000. Dormono nelle tende, sulle amache, in strada, nelle piazze. Sono tutti in condizioni precarie, in cerca di cibo e medicine. Migliaia di bambini sono denutriti, malati, senza istruzione. I giovani sono senza lavoro, esposti alla criminalità. Le donne sono spesso vittime di violenza, e rischiano di cadere nella rete dello sfruttamento sessuale e lavorativo. Con i prezzi dei beni essenziali che salgono alle stelle a causa di speculatori senza scrupoli. Anche se il governo brasiliano li fa entrare senza problemi e concede loro la possibilità di fare richiesta d’asilo o di chiedere una residenza temporanea, “la situazione dal punto di vista sociale è disastrosa”: è la denuncia al Sir di suor Rosita Milesi, della Conferenza episcopale brasiliana, in questi giorni a Roma per partecipare alla plenaria della Commissione internazionale cattolica per le migrazioni (Icmc).
Brasile, nel Roraima entrati in due anni 40.000 venezuelani. “In due anni nello Stato di Roraima sono entrate almeno 40.000 persone, sono tutti poverissimi e affamati. Alcuni si spostano, altri vanno e vengono – spiega -. Ma vivono in un contesto difficile: il Roraima, in Amazzonia, è già povero e molto isolato. È difficile far arrivare cibo, per andare in altri posti del Brasile a cercare lavoro bisogna prendere un aereo e non hanno soldi”. Suor Rosita si commuove quando parla e ricorda i volti di migliaia di bambini incontrati e di madri e persone vulnerabili incontrate. La sede della Conferenza episcopale è a Brasilia ma lei passa molto tempo alla frontiera per dedicarsi all’accoglienza dei venezuelani. “Come Chiesa diamo aiuti, facciamo quello che possiamo – dice – ma la sfida è grande.
Dal punto di vista legale il Brasile è un Paese accogliente, ma il governo deve coinvolgersi di più e dare cibo, assistenza e alloggi decenti per queste persone”.
Finora i venezuelani si arrangiano come possono in strada o nei capannoni dormendo sulle amache, “ma tra un mese inizia la stagione delle piogge – avverte – e la situazione si complicherà”.
Anche la Commissione episcopale per la tratta di esseri umani (Cepeeth) della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha diffuso il 7 marzo una nota ufficiale esprimendo “profonda indignazione di fronte a questa disumana e ingiusta realtà” e puntando il dito contro “l’assenza e il disimpegno dei poteri costituiti nel dare risposta”. La Commissione sottolinea anche “la mancanza di politiche pubbliche elementari come cibo, salute, igiene, sicurezza, istruzione”.
In Colombia, gli aiuti nella diocesi di Cùcuta. La Colombia, si sa, è il Paese che ha accolto il più alto numero di venezuelani in fuga: almeno 600.000. La diocesi frontaliera di Cùcuta è in prima linea negli aiuti, nella Casa de Paso Divina Providencia, che distribuisce almeno 1.500 pasti al giorno. Fino a gennaio 2018 nei comedores de caridad delle parrocchie della zona sono stati distribuiti 307.000 pasti. “È un grande impegno e il flusso di gente che viene a chiedere cibo, farmaci, beni essenziali non si ferma”, conferma mons. Misael Vacca Ramirez, vescovo della vicina diocesi di Duitama-Sogamoso, delegato per le migrazioni.
Intanto in Bangladesh è ancora emergenza Rohingya. Nella tavola rotonda finale della plenaria Icmc sono state raccontate le sfide con i migranti e i rifugiati affrontate da tante Chiese nel mondo. Tra le tante, quella del Bangladesh, con 1 milione e 100mila rifugiati Rohingya in fuga dallo Stato di Rakhine in Myanmar, di cui 700.000 arrivati lo scorso anno e ora accolti nei campi profughi a Cox’s Bazar. “Gli ultimi arrivati stanno soffrendo la fame – ha raccontato il vescovo Gervas Rozario, presidente di Caritas Bangladesh -. Noi diamo cibo, alloggio, acqua, servizi igienici a migliaia di persone. Ma la situazione è critica. Se tornano rischiano di essere nuovamente perseguitati. Ma in Bangladesh la popolazione è poverissima e comincia a lamentarsi perché i rifugiati ricevono cibo gratis”.
“Se i Rohingya rimangono qui si rischiano conflitti tra poveri e problemi culturali”.
Durante la plenaria sono state rinnovate inoltre le cariche interne all’Icmc. È stata eletta la nuova presidente Anne T.Gallagher e riconfermato come segretario generale per altri due anni mons. Robert J. Vitillo, che conclude: “È un momento difficile per i migranti e i rifugiati di tutto il mondo ma le parole del Papa ci incoraggiano. Per noi è di ispirazione ed esempio. Continueremo a lavorare per i diritti, la giustizia e l’integrazione”.
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