Gli altri siamo noi
La scomoda realtà dell'Africa centrale. Una testimonianza dall'Uganda
Pubblichiamo lo scritto di un giovane cesenate per alcune settimane in Uganda dove l'Ong Avsi (fondata dal medico cesenate Arturo Alberti) ha un progetto in favore dei rifugiati di origini congolesi
Una sorpresa continua. A viaggiare per le strade di Kampala, capitale dell’Uganda, viene da chiedersi se queste zone facciano parte dello stesso mondo in cui gli europei, e più in generale gli occidentali, vivono. Le differenze sono così evidenti che questa domanda rimbalza nella testa di tanti appena atterrati in queste zone. La prima diversità è la topografia del paese: immense strade dissestate, piste di terra, spesso pericolose, che i più percorrono senza un pick-up. Sono polverose, di un colore rosso che permea tutto il paesaggio. Sali-scendi ovunque, palme, piantagioni tropicali, animali liberi per strada. In mezzo a tutto ciò, colpiscono gli edifici: slum, case di argilla, grandi palazzi e persino grattacieli, tutto nell’arco di qualche chilometro. La scena è dominata dalle capanne, che si estendono a lato delle strade principali e su e giù per le colline. Rimane comunque normale, e sconvolgente al tempo stesso, trovare una capanna costruita in argilla di fianco a ciò che può sembrare un edificio simile ai nostri.
Poi ci sono le persone. È questo l’elemento, di questo inconsueto mix, che più fa riflettere. Un numero esagerato di uomini e donne che vagano per strada, magari senza scarpe, cercando di amministrare i loro “business” durante la giornata. In tutto ciò, non bisogna dimenticare che Kampala rimane l’eccezione in un paese dell’Africa centrale come l’Uganda: nella capitale si trovano tutti i servizi. Ma l’Uganda, un paese pieno di sorprese, offre altri scenari se ci si sposta dal centro verso ovest o nord. In particolare, muovendosi verso occidente, in direzione del confine congolese, si può incontrare qualcosa del tutto differente. Più precisamente a Rwamwanja, distretto che gravita attorno alla città di Kamwenge, la situazione appena descritta sembra quella non solo di un altro paese, ma persino di un altro continente.
Rwamwanja si è trasformato in un campo rifugiati per ospitare per lo più congolesi che continuano a fuggire dalla guerra civile-politica che da anni sta devastando il Paese. Migliaia di famiglie sono aiutate da Ong in collaborazione con le Nazioni Unite (Unhcr). In particolare, sono presenti agenzie quali Save the Children, World Food Program e l’Ong italiana Avsi, fondata a Cesena dal pediatra Arturo Alberti. Quest’ultima sta realizzando un progetto umanitario denominato “Graduating to resilience project”, che mira a rendere autosufficienti da un punto di vista economico e sociale 13000 famiglie nel distretto, metà ugandesi e metà formate da rifugiati congolesi. Il progetto, finanziato dall’agenzia americana Usaid con un budget di circa 36 milioni di dollari, è il più grande che Avsi sta gestendo negli oltre 30 paesi nel mondo in cui è presente. Interessante è il fatto che molti rifugiati e persone locali siano state prima selezionate e poi allenate tramite workshop e ora partecipino attivamente alla realizzazione del progetto. È anche per questo motivo che Avsi è ben vista dalla popolazione locale, che apprezza non solo gli aiuti in termini economici e sanitari, ma anche la capacità del suo staff (composto prevalentemente da ugandesi) di entrare in stretto rapporto con la popolazione locale.
Muovendosi all’interno dei 160 villaggi che compongono il distretto, la scena è dominata da enormi piantagioni di grano alte più di due metri. Le attività lavorative sono pressoché inesistenti. L’agricoltura rimane il settore più sfruttato. Questo vasto distretto gravita attorno agli aiuti umanitari e ai progetti sia di emergenza che di sviluppo che le Ong stanno implementando, lavorando a strettissimo contatto con le Nazioni Unite. Le case, se così possono chiamarsi, sono realizzate con terriccio e legno, usando come tetto dei tendoni donati dall’Onu. Qua mancano acqua corrente, elettricità, letti, bagni. I bambini sono tutti i giorni mandati alle fonti d’acqua che possono distare chilometri reggendo delle taniche gialle da riempire e riportare a casa. Ma il fatto più sconvolgente, a tratti straziante, in mezzo a tutta questa miseria è il sorriso che accompagna ogni loro saluto e i loro occhi spalancati dallo stupore ogni volta che dicono “Hi Mosungu, how are you?”, che significa “Ciao, bianco, come stai?”. Per loro è una rarità vedere una persona così diversa sia per il colore della pelle sia nel modo di vestirsi.
Tutto questo colpisce e fa riflettere. Destabilizza anche, soprattutto chi arriva a queste latitudini per la prima volta, anche perché questa condizione di vita appartiene a milioni di persone nell’Africa centrale. Una realtà lontana, ma che non può non riguardarci. Siamo tutti fratelli nella famiglia dell’umanità.
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