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Tradizioni locali e migrazioni. Una memoria selettiva

Italiano, ricorda quando partivamo noi

Da tempo e diffusamente si nota la ricerca con evidente soddisfazione di rievocare vecchie tradizioni o costumanze locali. Si ricorda e si recupera il passato paesano. Cesena recentemente in occasione della festa di San Giovanni ha rivissuto le contese tra quartieri della città. In tanti paesi appaiono cartelli a ricordare quartieri di un tempo. Ed è bello, purché questo non confermi localismi sterili ed autogratificanti.

Da tempo e diffusamente si nota la ricerca con evidente soddisfazione di rievocare vecchie tradizioni o costumanze locali. Si ricorda e si recupera il passato paesano. Cesena recentemente in occasione della festa di San Giovanni ha rivissuto le contese tra quartieri della città. In tanti paesi appaiono cartelli a ricordare quartieri di un tempo. Ed è bello, purché questo non confermi localismi sterili ed autogratificanti.

Ma storie ben più drammatiche che hanno coinvolto milioni di persone vengono facilmente ignorate. Mi riferisco a quando eravamo noi, italiani, a partire verso nuovi lidi ammassati, mal nutriti, doloranti per il forzato distacco dalle proprie case, dai paesi e parenti verso un’incerta fortuna di migliore vita per sé e per i propri familiari. Tra l’altro si era anche mal visti, sprovveduti, animati soltanto da una forte e incerta speranza di un futuro migliore. E le stive delle navi-carretta dell’Ottocento in rotta verso il nuovo mondo erano un’ammucchiata di persone esposte a facili contagi, infreddolite nelle notti che non passavano mai, spaesati tra cielo e mare per lunghi giorni.

Un mio amico italo-canadese, Odoardo Di Santo, giornalista e già deputato nel Parlamento dell’Ontario, ha scovato documentazione su alcune traversate transoceaniche di emigrati italiani, pubblicandola sul “Toronto Star”. “Sul piroscafo “Città di Torino”, scrive, nel novembre 1905 contarono 45 morti su un totale di 600 imbarcati: sul “Matteo Brazzo” nel 1884 una ventina di morti per colera gettati in mare e la nave fu respinta a cannonate a Montevideo per il timore del contagio; sul “Frisia” nel 1889 riportarono sul diario di bordo altri 127 morti “per asfissia”, ma più di 300 quando sbarcarono era in fin di vita.

E aggiunge: “le carrette degli oceani con a bordo la “tonnellata umana”, come definivano il carico degli emigranti italiani, spesso affondavano. Ci fu la strage del 17 marzo 1891 con 576 italiani annegati, quasi tutti meridionali, per il naufragio dell’“Utopia” davanti al porto di Gibilterra e 550 affondarono con la “Principessa Mafalda” il 27 ottobre 1927 al largo del Brasile ed erano a bordo di una nave talmente usurata che aveva subito 11 guasti ai motori e all’asse dell’elica di sinistra che quando si sfilò ruotando per inerzia squarciò lo scafo e le porte stagne non funzionavano e i migranti e l‘equipaggio furono inghiottiti dal mare.”

Non credo che i nostri attuali politici non lo sappiano, ma amano ignorarlo. Mentre invece la nostra esperienza migratoria, in altro modo rinnovatasi anche nella prima emigrazione europea del dopoguerra, dovrebbe renderci umanamente sensibili e concretamente comprensibili all’attuale biblico esodo dall’ Africa e dall’Asia, dal sud America e dalla stessa Europa.

Invece ci autosoddisfaciamo con ipocrite soluzioni: fermare l’ “invasione” o bloccare il flusso dando miliardi alla Turchia perché lo blocchi all’est e promettendone altri alla Libia perché a sua volta fermi nel deserto questa carovana di disperati per fame, guerre e catastrofi climatiche. E volentieri si sorvola sulla osservanza della dignità umana, sulle torture e gli sfruttamenti che avvengono in quegli ammassamenti di persone che sono i campi profughi di Libia e Turchia. Una neutrale inchiesta rivelerebbe scenari brutali.

Quindi: non rifiuto, bensì ragionevole responsabilità per governare insieme (Nazioni e società) questo fenomeno con concretezza, solidarietà e gradualità prima che divenga una incontrollabile bomba sociale.

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