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Coronavirus. Le parole di Silvia, infermiera del "Bufalini": "Il pensiero che più mi fa paura è tornare a casa e portare la malattia alla mia famiglia"

"Non dimenticherò mai la rabbia dei primi giorni in cui non avevamo i dispositivi di protezione individuale - racconta sul giornale parrocchiale di San Pietro -. Ho trovato Gesù nei pazienti soli, senza famiglia accanto nel momento più difficile della loro vita. Ho tenuto loro la mano in ogni circostanza, dal ricovero al trasferimento in altri reparti, ma anche nella morte"

Foto Ansa/SIR

Pubblichiamo la testimonianza di Silvia Degli Angeli, infermiera all'ospedale "Bufalini", da tre anni nel reparto di Terapia intensiva. Le sue parole sono pubblica sul giornale parrocchiale, in versione online, la Barca di Pietro, ribattezzato in questa emergenza sanitaria dal parroco don Walter Amaducci "Barca Corona".

"Mai come in questo momento amo il mio lavoro - scrive Silvia -. È cominciato tutto ormai un mese fa Eravamo pronti? No, ma il primo gesto è stato accogliere pazienti positivi provenienti da altri comuni per fornire loro le cure adeguate che altrimenti non avrebbero avuto per problemi di sovrannumero. Da lì in poi siamo stati travolti da un continuo e frenetico via vai".

Aggiunge l'infermiera: "Non dimenticherò mai la rabbia dei primi giorni in cui non avevamo i dispositivi di protezione individuale, poi sono cominciati ad arrivare, ma altrettanto difficoltoso è stato resistere per turni di 6-7 ore senza mai bere acqua né andare in bagno. Correre tra un’emergenza e l’altra, fare ricoveri, l’ansia, l’adrenalina, il caldo e gli occhiali che si appannano, i segni della mascherina e le mani che si sciolgono sempre dentro ai guanti e le notti diventano lunghissime e spaventano".

"Vado volentieri al lavoro ogni giorno, non mi sono mai tirata indietro - continua nella sua testimonianza la giovane -. Sapevo che quello era il mio posto e sono rimasta in ospedale molto più a lungo del mio turno per aiutare e collaborare nell’allestire nuovi posti letto di Terapia intensiva, ma la parte più dura non era partire, ma tornare a casa. Il pensiero che più mi ha ossessionato e tuttora mi fa paura è tornare a casa e portare la malattia alla mia famiglia, perché per quanto tu possa stare attento, la certezza di essere negativo lavorando a stretto contatto con il virus non c'è e cercare di ricreare un isolamento in casa con cinque persone è praticamente impossibile". 

Non ho pregato molto in questo periodo, ma sento di aver avuto Gesù vicino più che mai: ho trovato Gesù nei miei colleghi, fedeli compagni di avventura. Ho trovato Gesù nei pazienti soli, senza poter avere la famiglia accanto nel momento più difficile della loro vita. Ho tenuto loro la mano in ogni circostanza, dal ricovero al trasferimento in altri reparti, ma anche nella morte. Ho incontrato Gesù nella mia famiglia che mi ha sempre sostenuto, quando tornavo a casa arrabbiata con la società che non rispetta le regole, affaticata dalla stanchezza fisica e sopraffatta dalle emozioni. Ho incontrato Gesù nei miei amici che instancabili mi sono rimasti sempre vicino.

"La gente ci chiama eroi - conclude Silvia - ma non penso ci si addica come appellativo. Siamo donne e uomini che hanno scelto come lavoro l‘essere vicino alle persone nella malattia, accompagnandole verso la guarigione o verso la morte e siamo qui perché amiamo il nostro lavoro".

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