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Il "cuore" di Enzo Piccinini, nel ricordo di Marino Mengozzi, salvato dall'ardire dell'insolito chirurgo

L'incontro al Sant'Orsola di Bologna nel maggio del 1995. “La faccenda è grave, io farò il possibile ma anche tu devi fare la tua parte”.  Mi consegnò il foglio di dimissione con una battuta («Marino, hai un gran fisico») e una notizia: «La tua metàstasi pancreatica da carcinoma renale è il settimo caso in letteratura: andrà in riviste americane"

Foto di Pier Giorgio Marini

Parla un "miracolato" del dottor Enzo Piccinini. A farlo è il professor Marino Mengozzi, per lunghi anni vicepreside al liceo Scientifico "Righi" di Cesena e direttore dell'ufficio diocesano di arte sacra.

Ieri sera al palazzo del Ridotto, il professor Mengozzi (qui sotto nelle foto di Pier Giorgio Marini), durante la presentazione del libro (cfr pezzo a lato) "Amico carissimo" sulla figura del medico Enzo Piccinini, ha portato la testimonianza di uno salvato, se così si può azzardare, dall'ardire di Piccinini che lo operò, nel lontano maggio del 1995, nonostante le difficoltà della situazione e la complessità del caso. 

Ecco il testo letto ieri sera da Mengozzi. 

Duodenocefalopancreasectomia secondo Krausch-Whipple, il più difficile intervento della chirurgia addominale, che consiste nell'asportare la testa del pancreas, il duodeno, la colecisti e un segmento di stomaco, con ricostruzione mediante tre anastòmosi: pancreatica, biliare e digestiva. In questo infernale groviglio terminologico s’innesta il mio incontro con Enzo, con il dottor Piccinini, al Sant’Orsola, nel maggio 1995. Da poco più d’un mese ero stato sottoposto a nefrectomia sinistra per un carcinoma, svelatosi improvvisamente e operato grazie al pronto intervento di due medici e amici: il compianto Leonardo Garaffoni e Raffaele Bisulli. L’asportazione del rene era risultata felice e priva di metàstasi, ma covava un’insidia, palesatasi non molti giorni dopo quando, divenuto tutto giallo, fui sottoposto a tac che rivelò una massa ostruttiva nella testa del pancreas.

Fu allora che Raffaele si rivolse a Enzo, il quale celermente mi ricoverò nel suo reparto bolognese. Vi lascio immaginare quale poteva essere il mio stato d’animo. Il dottor Piccinini mi fece immediatamente visita, si sedette sul mio letto e palesò responsabilmente la complessità del caso: ma nei suoi modi e nelle sue parole colsi una serena serietà, con gli occhi che parevano dirmi: “la faccenda è grave, io farò il possibile ma anche tu devi fare la tua parte”. In quasi due mesi di ricovero lo avrei visto tante volte entrare in camera, sedersi al mio fianco, osservare il mio addome pieno di tubi e cannule, spiegare agli immancabili due allievi-assistenti il funzionamento dei drenaggi, l’alimentazione con sacca intragiugulare, la pompa dell’anestetico. Mi consegnò il foglio di dimissione con una battuta («Marino, hai un gran fisico») e una notizia: «La tua metàstasi pancreatica da carcinoma renale è il settimo caso in letteratura: andrà in riviste americane». Riuscii a sorridere, nonostante non mi reggessi in piedi, e a ringraziarlo; lui mi salutò con occhi che parevano dire: “Ringraziamo entrambi il Mistero”.

marino mengozzi

La lettura di Amico carissimo non poteva non risvegliare in me, dopo quasi trent’anni, ricordi dolorosi e persino drammatici: ma si è pure tramutata in occasione di rinnovata gratitudine (tutti gli anni mi annoto nell’agenda l’anniversario della salita al Cielo di questo nostro Servo di Dio) e di conversione. Io non saprei dire se questo «insolito chirurgo» mi ha salvato con la sua eccezionale bravura operatoria – Raffaele fu presente alle nove ore d’intervento e dunque ne è testimone –; o se il Cielo ha esaudito la tanta preghiera della Compagnia e degli amici; oppure se c’è stata la mano della Madonna di Monte Sorbo, alla quale consegnai – nell’occasione della Via Crucis presieduta da don Ezio il Venerdì Santo di quell’anno – la busta col referto ecografico appena ritirato, accettando e offrendoLe il contenuto, con la promessa che avrei fatto di tutto per riparare la sua diruta Pieve. Ma so di aver imparato, da quella circostanza e da come Enzo m’ha insegnato a guardarla, il senso dell’obbedienza e dell’offerta: sulle orme della meravigliosa preghiera di don Giussani: «Signore, riconosco che tutto da Te viene, tutto è Grazia, gratuitamente dato, misterioso, che non posso decifrare, ma che io accetto, secondo le circostanze in cui si concreta tutti i giorni, e Te lo offro, e tutte le mattine Te lo offro, e cento volte durante il giorno se Tu hai la bontà di farmelo ricordare io Te lo offro».

Quanto respiro, quanta autocosciente libertà, quanta fede nelle pagine di questo libro. «Ci vuole qualcosa di più grande, per cui anche le situazioni che non capisci hanno senso. Ci vuole qualcosa di più grande per cui devi ammettere che puoi anche non capire, che può anche andare come tu non vuoi» (p. 173). A don Giussani che lo ringraziava per essere stato lo strumento di un miracolo chirurgico Enzo rispondeva: «Strumento di un miracolo… Significa che non ho nulla di cui vantarmi, anche se ho salvato la paziente. Ma, in fondo, questo è il senso cristiano della vita, perché il compimento non dipende da noi e questo ci rende liberi, non ricattati dall’esito». E lo diceva a quel «certo don Luigi Giussani che gli aveva insegnato a fare il chirurgo», come ebbe a dichiarare a una folta platea di medici attoniti; specificando: certo, da lui aveva appreso non la tecnica ma la «posizione umana» che dà senso e valore a tutto ciò che implica questa professione (p. 254).

L’«insolito chirurgo», che entrava in sala operatoria dicendo «Ti offro, Signore» (p. 280), curava con mani, occhi e parole, cosciente del fatto che «la dedizione totale al lavoro è necessaria perché è la dedizione al disegno di Dio», come insegnava don Giussani (p. 281); e che «Siamo tutti nelle mani di qualcun Altro» (p. 276). «Mettere il cuore in quello che si fa» è stata la formula della sua esistenza: lo disse proprio qui a Cesena il 12 marzo 1999, due mesi e mezzo prima di morire (p. 20). Ma in precedenza aveva precisato che «dire cuore e dire Cristo è la stessa cosa» (p. 188). Da qui l’esperienza religiosa, perché il cuore conduce all’ultima dipendenza, che è sommamente conveniente: «Guardate, non dobbiamo avere paura di essere religiosi. È meglio essere religiosi che furbi. È questa consapevolezza che ci fa pregare»: così che «le cose sono restituite nel loro giusto valore, nella loro giusta proporzione. Abbiamo bisogno di questo, lo sentiamo, è il cuore dell’uomo che lo desidera» (p. 25).

Sì, Enzo ha fatto tutto per essere e rendere felice.  

            

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