Calcio
A tu per tu con Giampiero Ceccarelli, bianconero per sempre
Il calcio di ieri e di oggi, cesenate e non solo, sotto la lente di ingrandimento
Dall’alto delle sue 591 presenze con la maglia del Cesena, Giampiero Ceccarelli fece un voto di totale fedeltà al Cavalluccio. Da calciatore indossò sempre e solo questa casacca e ciò gli fa detenere ancora oggi il record di apparizioni in gare ufficiali del club romagnolo. Dal 1966 al 1985 il classe ’48 ha coronato la sua carriera da atleta divenendo quindi una bandiera in città, poi si è alternato nelle vesti di vice e tecnico del Cesena. Per quattro anni è stato l’allenatore in seconda dell’Olympiakos in Grecia, ha quindi ricoperto il ruolo di osservatore prima per l’Italia dal 2003 al 2010 e infine per i colori bianconeri dal 2011 al 2018.
Son passati tanti anni da quando calcava i campi da gioco, qual è il ricordo che conserva con più affetto? “Quando andammo in Serie A nel campionato 1972-1973 con Luigi Radice allenatore. Aveva creato un ambiente non di giocatori, ma di tutti amici. Per questo penso che abbiamo dato oltre alle nostre possibilità. Non era nei nostri pensieri quello di vincere il campionato di B, però ce la facemmo”.
L’uomo più rappresentativo fu Gigi Radice. “Ci mise in condizione di sentirci in grado di vincere. Abbiamo dato qualcosa in più sia in campo che fuori. L’aspetto più importante penso sia quest’ultimo: ci chiedeva di comportarci bene e fare le cose come le voleva lui, anche al di fuori del rettangolo verde. Dal punto di vista umano era uno di noi, anche come ragionamento. Era un amico, non un allenatore. Fu lui a darmi la fascia di capitano e mi disse “sarai il mio capitano personale”, anche se non ero il più anziano. Non mi aspettavo ciò, rimasi sorpreso. Forse vide qualcosa di speciale in me perché facevo gruppo con tutti”.
Con qualcuno è rimasto in contatto? “Molti compagni venivano da fuori ma ancora oggi mi sento e vedo con Otello Catania. Ci sentiamo e a volte prendiamo un caffè insieme al bar”.
Oltre alla carriera da calciatore intraprese quella da allenatore. È riuscito a coltivare altri hobby al di fuori del pallone? “Ho il calcio nella testa da quando avevo 10 anni. Ho 4 figli maschi e 5 nipoti. Mi occupo di loro: ci vediamo, stiamo insieme e anche loro giocano a calcio”.
Il Cesena è entrato da seconda della classe nei playoff. Quali sono le speranze che possono coltivare i tifosi? “Si apre un altro campionato perché le squadre che sono arrivate fin qui hanno delle qualità importanti. L’aspetto mentale sarà fondamentale. Per formare una squadra vincente o che abbia qualcosa in più degli altri è importante creare una sinergia fra i giocatori e tenere unito il gruppo”.
Come valuta il calcio di oggi? “Tutti i club cercano di far qualcosa in campo dando meno importanza alla personalità dei giocatori. Il segreto è di creare una squadra dove i componenti giocano gli uni per gli altri. Questa cosa viene a mancare un po’ al giorno d’oggi”.
La Nazione è in crisi, i giovani talenti non affiorano e scompaiono nel sottobosco del calcio. È davvero così? “La Nazionale deve essere fatta di italiani. Si è arrivati a questo punto perché le società valorizzano i loro giocatori stranieri, io la penso così. Occorre poi ripartire dai vivai, perché incominciando dai ragazzi di 10 anni si portano a 15-16-17 e in base alle loro qualità possono essere convocabili per le prime selezioni azzurre. Se ciò funziona, poi la nazionale maggiore ne beneficia. Io credo che i giocatori ci siano, bisogna seguirli e andare di pari passo con la loro crescita atletica e caratteriale”.
Tanti calciatori non riescono a sfondare nel mondo del professionismo. Come si possono superare queste delusioni? “Ovviamente un ragazzo non ci rimane bene ma non succede tutto in una volta. Già a 10-13 anni si capisce chi è bravo. Quindi uno sa come affrontare la situazione. Lo sport in ogni caso ti migliora, non è tempo perso quello impiegato anche da un non professionista, però bisogna pensare anche ad un lavoro”.
Molti talenti si perdono tra ‘affaristi’ procuratori, club esigenti e un mondo social che si basa sull’immagine più che sulla sostanza. “Ci sono troppe distrazioni rispetto al passato. Faccio un esempio: uno che aveva le qualità di Balotelli, non doveva avere nessun problema a sfondare. Un calciatore di livello deve saper gestire certe distrazioni”.
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